martedì 25 gennaio 2011

“La Tv non fa sudare…"

Riflessioni sull’elettrodomestico che faceva da baby sitter.

Seconda Parte



(Qui di seguito la seconda parte di un mio contributo già pubblicato con l'Associazione Tutti Per Volta )

Molti esperti suppongono che una conseguenza del rapporto precoce, prolungato e solitario tra TV e infanzia sia che i minori sono sottoposti ad una terza educazione rispetto a quella familiare e scolastica, quella della tv (Arcuri, 2008).

I programmi televisivi sono vari e non esclusivamente educativi. La TV rappresenta un enorme palcoscenico in cui vengono presentati e rappresentati avvenimenti veri, reali (ad es. cronaca, notizie dal mondo, eventi sportivi o musicali…); storie di personaggi immaginari ma credibili, verosimili (serie tv per es. sui medici e carabinieri…); vicende di protagonisti inverosimili e paradossali (cani o uccelli che parlano come esseri umani...) (Arcuri, 2008).

La comunicazione con lo schermo è univoca: la tv non ci risponde, non ci accarezza né ci viene in soccorso, non ascolta e non interagisce fisicamente con noi. La televisione ci stimola ma non lascia spazio allo scambio. Scambio interattivo, bidirezionale e attivo che è fondamentale in un’età in cui manipolare e agire, sfrenarsi, sporcarsi, sudare, stancarsi sono fondamentali per lo sviluppo del pensiero, delle emozioni e del corpo.

Il linguaggio televisivo, specie quello dei cartoni animati e della pubblicità, cattura l'attenzione dei bambini, stimola il sistema sensoriale-percettivo tanto da produrre il fenomeno della attentional inertia (Falcinelli, 2003): si rimane attaccati al video, anche se è caduto l'interesse per il contenuto della trasmissione e più a lungo si guarda il teleschermo, maggiore è la probabilità che si continui a farlo.
Più i bambini sono piccoli più risultano disarmati davanti al teleschermo: ne vengono catturati.

Studi e ricerche confermano che la fruizione di più di due ore al giorno di televisione, in età infantile, può provocare problemi di attenzione (facilità alla distrazione e difficoltà nella concentrazione) in età scolare o al più tardi in adolescenza.
Troppa televisione fin da piccoli, a scapito di altre esperienze che stimolano la concentrazione, come la lettura, i giochi e lo sport, può favorire l’abitudine a captare una serie di messaggi prefabbricati, dove l'apporto dello spettatore è minimo. Il pericolo è che i bambini sviluppino un'attitudine passiva di fronte al video, possono diventare degli ottimi spettatori, farsi anche delle opinioni, però non si abituano a prendere delle iniziative e/o a riflettere (Oliviero Ferrarsi, 1995).

Il rapido alternarsi delle scene sovra-stimola il cervello dei bambini ma non lascia tempo alla riflessione, favorendo la percezione della realtà come "noiosa“ e contribuendo a rendere i bambini stessi maggiormente intolleranti nei confronti di attività ordinarie, come ad esempio i compiti.

Nei programmi televisivi rivolti ai bambini inoltre ogni finale rappresenta una gratificazione dal punto di vista psicologico (Oliviero Ferraris, 1995) rischiando di favorire lo sviluppo da parte dei bimbi di un'attitudine del "voglio tutto e subito". Questa attitudine è spesso poco coerente con la realtà vera che prevede l’attesa o anche i “non è possibile”. E’ importante aiutare i bambini a sopportare la frustrazione e insegnare loro la dilazione della gratificazione.

Per ciò che riguarda lo sviluppo socio-emotivo sappiamo che più il bambino è piccolo più potrebbe affezionarsi alla tv e ai suoi programmi. Se per il bambino la tv diventa una specie di baby-sitter, un’alternativa quasi esclusiva al gioco sia solitario che in compagnia o addirittura un modo abituale per riempire il vuoto di relazioni affettive, questo ha delle ricadute negative sulla costruzione delle sue competenze emotive e relazionali. Il bambino impegnato a guardare la televisione non è infatti protagonista attivo, non è chiamato a interagire esercitando il suo spirito di iniziativa, a pensare, a riflettere creativamente sui problemi per trovare soluzioni, a riconoscere e a comunicare stati emotivi: è coinvolto solo come spettatore che può coinvolgersi e identificarsi ma null’altro.

Le conseguenze sono che la solitudine può aumentare, possono risultare impoveriti e meno motivanti i contatti sociali “reali” e può svilupparsi una maggiore tendenza alla passività all’interno delle relazioni o una maggiore propensione ad assumere atteggiamenti appresi in TV.
Michael Rich (Direttore del Center on Media and Child Health al Children’s Hospital di Boston, che da anni si occupa degli effetti dell’esposizione dei bambini ai media), spiega che “il cervello di bambini piccoli (prima dell’ anno di età) non è ancora in grado di decodificare le immagini che vengono trasmesse in video. Ciò di cui hanno più bisogno per lo sviluppo del proprio cervello è l’interazione con altri esseri umani e il rapporto fisico, tattile con l’ambiente che li circonda.”

Il bambino cresce e sviluppa se stesso e le sue competenze grazie alla presenza di altri esseri umani che interagiscono con lui, con calore e affetto. E’ attraverso questi scambi comunicativi e affettivi che si stabilisce un legame di attaccamento che è alla base del senso di sicurezza personale che permette di esplorare il mondo, di socializzare, di affrontare paure e dolori, di prendere iniziative, di sviluppare fiducia in sé e nell’altro, di costruire autonomia.

Per ciò che riguarda l’età ci sembra importante quindi sottolineare che un bambino fino ai 2-3 anni non è in grado di differenziare con correttezza realtà e fantasia. Se il bambino è lasciato per molto tempo solo davanti alla televisione e non ha nessuno con cui sdrammatizzare, rielaborare scene violente o immagini emotivamente “forti”, capire che non sono reali, può provare ansia, paura e avere incubi notturni.
Un bambino di 4 o 5 anni incomincia a capire la differenza tra vero e falso ma non differenzia tra vero e verosimile né tra generi (per es. tra programmi per adulti e per bambini).

Inoltre i tempi di attenzione non sono molto lunghi per cui potrebbe non essere in grado di seguire il filo conduttore, la trama di una vicenda, e quindi non collegare il finale moralistico della storia con il resto.

Le motivazioni con cui i bambini guardano la televisione sono completamente diverse dalle motivazioni con cui lo fanno gli adulti.
Come in tempi passati i bimbi guardavano genitori e fratelli per capire come funziona il mondo, per farsene un’immagine, per capire e apprendere come comportarsi, ora lo fanno guardando anche la televisione.

I bambini ma in realtà ognuno di noi si sviluppa e si struttura soprattutto attraverso i contatti sociali e la comunicazione con le altre persone, apprendendo e scegliendo valori, atteggiamenti e comportamenti.
La tv, come altri mezzi di comunicazione di massa, fa parte della nostra vita e di quella dei nostri figli ma non può sostituire il rapporto con i genitori e /o altri significativi.

Alla luce di queste ultime affermazioni si rende inevitabile una nostra partecipazione e mediazione consapevole e responsabile nel rapporto tra tv e infanzia visto che non è la presenza del mezzo ad essere nociva ma il possibile utilizzo che di essa viene fatto.
In questo compito siamo coinvolti tutti e in particolare le principali agenzie educative e di socializzazione: famiglia, scuola, mass media e non ultime le istituzioni.

Dall'indirizzo: http://www.tuttipervolta.org/articoli/index.php

lunedì 24 gennaio 2011

“La Tv non fa sudare…

Riflessioni sull’elettrodomestico che faceva da baby sitter.

Prima parte












(Qui di seguito la prima parte di un mio contributo già pubblicato con l'Associazione Tutti Per Volta.)

Il rapporto fra televisione e bambini è diventato costante e quotidiano. E’ ormai rarissimo non trovare in casa una televisione, spesso anzi ce n’è più di una.
Anche nella stanza dei bambini.

Gli adulti impegnati nel processo educativo con i bambini e con i ragazzi, dai genitori agli insegnanti agli operatori, possono sentire l’esigenza di interrogarsi, informarsi e formarsi circa le possibili strategie da mettere in atto per proteggere i minori con cui hanno a che fare ma anche per renderli teleutenti competenti e attivi.

Leggendo i dati di recenti indagini statistiche ci rendiamo conto che i dubbi, le perplessità o le preoccupazioni circa le conseguenze del rapporto tra tv e bambini sono fondate.

Secondo una indagine Istat e Multiscopo del 2003 in Italia i minori passano davanti alla TV 1.100 ore all’anno contro le 800 della permanenza nelle aule scolastiche.
In particolare l’82% dei bimbi di età inferiore ai 5 anni; il 91% di quelli tra i 6 e i 10 anni; 90% tra gli 11 e i 14 anni, 85,8% tra i 15 e i 17.
Altri dati Istat del 2009 indicano che il 96% dei bambini italiani in età prescolare guarda la TV e il 91% lo fa tutti i giorni, in tutti gli orari.

Sappiamo oltretutto che per la maggior parte del tempo i bambini guardano la televisione da soli rischiando di trascurare gioco e studio.
La visione televisiva accompagna inoltre momenti cruciali e intimi della vita familiare: i pasti e il momento di andare a letto.
Sono in molti i bambini che si addormentano sul divano cullati dalle voci del piccolo schermo piuttosto che dalla ninna nanna e/o dal racconto delle favole da parte dei propri genitori.

Assistiamo ad una vera e propria mutazione antropologica (Oliviero Ferraris, 1998), ad un cambiamento nei costumi, nella cultura e nelle relazioni familiari che sono mediate dalla presenza e dalla fruizione sempre più massiccia della TV.
Il risultato più grave di un’organizzazione familiare in cui le relazioni sono mediate dalla TV riguarda la riduzione di momenti dedicati alla comunicazione e all'ascolto reciproco, allo scambio e al confronto di idee e di opinioni e su problemi ed esperienze personali. Tanto meno la famiglia dedica spazi allo scambio relazionale-affettivo tanto più i suoi componenti, soprattutto i figli, rischiano di vivere un senso di solitudine emotiva.
Il tempo passato in compagnia della televisione non riesce a compensare questa mancanza e non può in alcun modo sostituire il rapporto con le persone.

Molti genitori si sentono oberati da impegni lavorativi e quotidiani, con tanti pensieri e preoccupazioni che occupano la mente e rientrati a casa vorrebbero rilassarsi, distrarsi un po’, e invece bisogna occuparsi della cena o di altre faccende domestiche o ancora di accompagnare o di andare a riprendere i bambini da parenti o da centri ricreativi etc. In queste situazioni sembra poca l’energia da dedicare alla comunicazione a al rapporto con i propri figli e metterli davanti alla tv può essere ritenuto “comodo” e finanche necessario. Nulla di male ad ammetterlo.

La tv è un importante mezzo di socializzazione, di apprendimento di conoscenze e informazioni, può essere stimolante con le sue immagini e i suoi suoni. E soprattutto i bimbi lì davanti stanno buoni e seduti!
Questo è innegabilmente vero e comprensibile. Tuttavia per evitare che l’uso di questo mezzo diventi più dannoso che utile, è importante che gli adulti di riferimento possano “filtrare” la fruizione della TV da parte dei propri figli, prendendo seriamente in considerazione alcuni fattori quali la quantità di ore passate davanti al piccolo schermo, la qualità e l’adeguatezza dei programmi, la modalità di fruizione (ad es. da soli o in compagnia), le motivazioni con cui essi guardano la TV e l’età dei piccoli teleutenti.

Dall'indirizzo: http://www.tuttipervolta.org/articoli/index.php

giovedì 20 gennaio 2011

Intervista di Olivier Maurel ad Alice Miller (1999, revisione del 2004)

Un punto di riferimento importantissimo nel mio lavoro di psicoterapeuta  è il modello teorico e di intervento elaborato da Alice Miller.
La Miller è  una psicoanalista che ha raggiiunto fama internazionale con il suo lavoro sulle cause e gli effetti dei traumi infantili. Tra i suoi libri che sono stati tradotti in lingua italiana vi consiglio: Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé (1996), Il risveglio di Eva (2002), Il bambino inascoltato (1989), La rivolta del corpo.

Vi segnalo il link del sito in cui è pubblicata questa interessante intervista di Olivier Maurel alla Miller :
E condivido qui di seguito il testo dell'intervista stessa:

Qual è, secondo lei, la fonte principale della violenza umana?
Vedo le radici della violenza e della distruttività dell’adulto nei traumi e nelle carenze che questi ha subìto e rimosso nella sua infanzia.
Com’è stata personalmente portata alla certezza che il maltrattamento sia la fonte principale della violenza umana?
Grazie ai miei pazienti, ho potuto un po’ alla volta acquisire la certezza che le ferite subite durante l’infanzia si trasformano nell’età adulta in distruttività.
Perché, inizialmente, si era orientata verso la psicanalisi?
Quando ho cominciato a studiare la psicanalisi, non sapevo tutto quello che oggi so. Speravo di trovare le risposte alle domande che mi ponevo. E ho trovato molte risposte studiando i concetti di rimozione, la negazione e l’ossessione di ripetizione [compulsione]. Ma la risposta alla domanda sulle radici della violenza ho dovuto trovarla da sola, e contro il dogma freudiano sul male innato.
Per quanto tempo ha esercitato?
Ho esercitato la psicanalisi per vent’anni.
Per quale motivo vi ha rinunciato ed è stata portata a criticarla?
Un po’ alla volta mi sono resa conto che le domande che mi ponevo erano inquietanti per i miei colleghi e che non ne potevo discutere con loro. Ero sempre più convinta che i miei pazienti avessero subìto delle infanzie molto infelici ma che non potessero ammettere questa verità. Idealizzavano i loro genitori, e nascondevano la verità tanto a loro stessi quanto a me. Quando volevo parlare di tali questioni con i miei colleghi, mi assicuravano sempre che mi sbagliavo, perché Freud aveva detto che bisognava trattare come fantasie tutto ciò che il paziente racconta.
La “pulsione di morte”, alla quale ci si riferisce spesso per spiegare la violenza, per lei è una realtà?
No, la pulsione di morte, compresa come un istinto umano, secondo me non è affatto una realtà. Penso che si possa evitare la distruttività se si trattano i bambini fin da subito con rispetto, amore e protezione.
La sua condanna alla psicanalisi è totale?
All’inizio, ero molto indignata nel constatare che la psicanalisi ha considerato il maltrattamento del bambino in un modo per me molto sorprendente.
Ma, come ho detto prima, ho anche imparato molto dalla psicanalisi.
Può spiegare il processo interiore attraverso il quale i maltrattamenti subiti dai bambini hanno delle conseguenze nel corso di tutta la loro esistenza e li spingono alla violenza contro altri o alla violenza contro sé stessi? Si tratta di un’imitazione di ciò che hanno subìto, di una vendetta o di un altro processo psichico?
Lei mi pone delle domande molto importanti, e che anch’io mi pongo sempre. Penso che ci vogliano ancora molte ricerche per poter veramente rispondere a queste domande dal punto di vista della strutturazione del cervello. Il fenomeno è chiaro. Si può constatare ovunque che ciò che si è subìto lo si ripete inconsciamente in una maniera attiva o passiva. Tutti i miei libri contengono molti esempi di questo fatto, e ognuno di noi può osservare nella vita quotidiana come ciò accada.
Ma si constata anche che non è una fatalità, che ci sono delle persone, che per esempio erano picchiate dai loro genitori, e che non picchiano i loro figli, perché hanno deciso di cambiare qualcosa nella loro vita. Non vogliono automaticamente ripetere ciò che è successo a loro e cercano altre opzioni.
Forse tutte le sue proposte di spiegazione sono valide. Si può parlare in un caso di vendetta, in un altro caso d’imitazione, e ci sono forse altri casi in cui si può trovare un’altra spiegazione.
Lei ha chiamato il maltrattamento dei bambini “un crimine millenario” (“La fiducia tradita. Violenza e ipocrisie nell'educazione”, ed. francese “Abattre le mur du silence”). Come giustifica questa affermazione?
Parlo di un crimine millenario perché il modo di trattare un bambino come un oggetto e d’ignorare i suoi bisogni può essere osservato non sono ai giorni nostri, ma anche molte migliaia di anni fa, per esempio in Cina, in cui per moltissimo tempo si sono rotte le ossa dei piedi delle bambine. Preferiamo ignorare questi fatti o non credervi, perché sono abominevoli. Ma comunque esistono. La mutilazione delle donne in Cina, la mutilazione delle donne in africa che si perpetra fino ad oggi non ha aiutato le donne adulte a diventare delle madri amorevoli per i propri figli. Le nonne e le madri che sono sempre favorevoli all’infibulazione della loro bambina hanno subìto lo stesso dolore e la stessa umiliazione della loro madre e della loro nonna senza potersi difendere. E’ verso le bambine che si dirige la loro rabbia rimossa e negata. Parlo di un crimine millenario perché voglio mostrare che i risultati di questi crimini non sono limitati ad una generazione. La violenza si perpetra senza limite.
La sua spiegazione della violenza attraverso il maltrattamento dei bambini è confermata o meno dagli studi degli animali più simili a noi?
Certo. Se prendiamo un cane che è stato maltrattato all’inizio della sua vita, vedremo una grande differenza tra questo e un altro cane che è stato amato fin dal primo giorno.
Si può constatare la stessa cosa anche con i gatti. I cani aggressivi, che combattono, sono cani severamente maltrattati nella loro infanzia. Ciò che gli animali e gli esseri umani devono ricevere dalla madre all’inizio della loro vita è la certezza interiore di essere accettati, che li aiuterà in seguito a gestire lo stress in modo ottimale.
Per quali ragioni si prova tanta reticenza ad accettare l’idea della gravità dei maltrattamenti inflitti ai bambini?
Ci sono diverse ragioni che ci impediscono di accettare questa verità. Innanzi tutto, c’è il dolore e l’angoscia della nostra personale infanzia che vogliamo evitare. Se accettiamo il fatto che noi stessi siamo stati traumatizzati, feriti, umiliati nella nostra infanzia, delle emozioni sgradevoli come la rabbia, la tristezza, l’angoscia possono tormentarci, e noi vogliamo evitarlo a tutti i costi. Ci si pone la domanda: che ne farò di tutte queste emozioni una volta che le avrò risvegliate? Allora, si preferisce non svegliare il cane che dorme e ci si ripete che tutte le spiegazioni sull’infanzia non hanno veramente importanza.
Molti intellettuali e insegnanti credono che la cultura possa essere uno scudo contro le dittature. Ma un buon numero di intellettuali, tra cui il più grande filosofo tedesco, Heidegger, sono stati sedotti dal nazismo, e la Germania all’inizio del secolo era il paese al mondo che aveva il minor numero di illetterati. Ciò conferma il suo punto di vista?
Si, certo. Apparentemente, si possono sviluppare delle capacità intellettuali molto importanti senza avere un ricordo cosciente di ciò che si è subìto da bambini. Il ricordo dei traumi può essere registrato nel nostro corpo senza essere presente coscientemente.
“Come impedire a degli squilibrati di arrivare al potere e di tiranneggiare interi popoli?” Lei pone questa domanda in “La fiducia tradita. Violenza e ipocrisie nell'educazione”, ed. francese “Abattre le mur du silence” p. 142). Che risposta dà?
E’ la domanda a cui cerco la risposta io stessa. Per impedire a degli squilibrati di tiranneggiare interi popoli, bisogna voler comprendere proprio quella dinamica che ci si rifiuta di comprendere. Per quale motivo questo rifiuto? La paura del dolore è l’unica ragione? Credo ce ne siano altre. Uno dei motivi più profondi è il fatto che, nella prima infanzia, noi dobbiamo lottare contro lo stress distruggendo i neuroni che avrebbero potuto conservare il ricordo dei maltrattamenti. Una volta diventati adulti, ci manca il ricordo cosciente di ciò che è successo, e, se il ricordo continua ad agire nel nostro corpo producendo sintomi psicosomatici, possiamo negare il loro legame con la nostra storia reale. Tuttavia, si può constatare che durante la terapia, se riusciamo a comprendere le nostre emozioni nel contesto reale della nostra vita, possiamo stare meglio e anche vedere scomparire i sintomi psicosomatici. E’ il soggetto del mio prossimo libro, “La rivolta del corpo” (2004). Allora spero che in futuro le persone cominceranno a capire la loro vita e giungeranno ad impedire a degli squilibrati di tiranneggiare i popoli.
Per quale ragione, secondo lei, la sua opera è molto più conosciuta e meglio accettata negli Stati Uniti e in Germania piuttosto che in Francia?
Non lo so. Forse può rispondere lei a questa domanda, visto che è francese e ha comunque apprezzato i miei libri. E’ vero che in America e in Germania, come in Francia e come ovunque, la maggior parte delle persone è persuasa che esistano delle sculacciate buone, che non si possa educare senza di esse.
Ma negli Stati Uniti, in Germania e nei paesi scandinavi, ci sono se non altro dei gruppi che mettono in discussione questa tradizione. Dei giovani genitori che hanno la fortuna di vivere delle nuove esperienze con i loro neonati e i loro bambini, e che, partendo dalla loro propria infanzia, cominciano a comprendere sulla natura umana delle cose che i loro genitori non hanno potuto insegnare loro. La Francia mi sembra un po’ più in ritardo, ma vi si trovano anche dei gruppi che si organizzano.
Lei ha scritto, nel suo libro “Le vie della vita. Sette storie” (p. 137, ed. francese), che “solo degli uomini e delle donne che abbiano conosciuto prestissimo, nelle prime settimane della loro vita, la violenza fisica e morale, non hanno saputo cos’è l’amore, hanno potuto divenire dei “boia volontari di Hitler””. Su cosa poggia tale affermazione?
Negli anni sessanta lo psicologo Harlow ha condotto degli esperimenti con le scimmie. Ha potuto dimostrare che le piccole scimmie, private dell’amore e della presenza della madre dopo la nascita, non hanno interesse per i propri figli una volta diventati adulti. Dopo Harlow, sono stati ripetuti i suoi esperimenti con altri animali, in particolare i topi. Sugli uomini ci si è accorti che un bambino che è stato trascurato all’inizio della vita non può sviluppare la sua capacità di empatia. Allora, è logico, non posso immaginare che si possa divenire un boia volontario di Hitler se si è potuta sviluppare questa empatia.
A leggerla, si ha a volte l’impressione che, per lei, un bambino trattato bene, rispettato, accompagnato dai suoi genitori con tenerezza, non possa fare del male, che i sentimenti viventi che egli ha conservato dalla sua infanzia lo impediscano. Lei scrive in un altro punto: “Ogni essere umano viene al mondo senza cattive intenzioni, e con un bisogno chiaro, forte e privo di qualunque ambivalenza: restare in vita, amare ed essere amato.” (“La fiducia tradita. Violenza e ipocrisie nell'educazione”, ed. francese “Abattre le mur du silence” p. 197, ed. francese). E, più chiaramente ancora: “Mai qualcuno che abbia avuto il diritto di provare nuovamente ciò che gli è stato inflitto nella sua infanzia commetterà un omicidio.” (L’infanzia rimossa, p. 35, ed. francese). Su cosa si poggia la sua certezza? Essa non nega la libertà umana, che può essere anche la libertà di fare il male?
E’ una domanda molto francese. Lei parla di una teoria, e io parlo della vita. In Francia siete molto impressionati dalle teorie del marchese de Sade, che ha cercato la libertà del suo piacere perverso. All’inizio non conoscevo niente della sua infanzia, ma non potevo immaginare che qualcuno che non fosse stato torturato nell’infanzia avesse bisogno di torturare gli altri. E ne ho trovato la conferma nella storia della sua infanzia. Ma perché nessuno s’interessa all’inizio della storia? Ci sono persone che non hanno necessità di fare del male, non cercano la libertà di fare del male. Cercano la libertà di esprimersi, di poter amare. Se qualcuno ha bisogno di essere libero di fare il male, ciò significa che la storia della sua vita lo spinge verso questa azione. Ma essere spinto è per me il contrario della libertà.
A volte lei è stata accusata di “rousseauismo”. L’uomo naturale è ai suoi occhi, come agli occhi di Rousseau, “naturalmente buono”?
Quando si mettono in evidenza della cose spiacevoli, non si può evitare di essere costantemente inquadrati in categorie, in cui non ci si sente bene. Ho mostrato io stessa che Rousseau era ancora un uomo del suo tempo in Emilio, in cui ricorre alla pedagogia nera. Ciò che io scrivo non ha niente in comune con la sua descrizione sentimentale della natura del bambino, che lui voleva tra l’altro educare in modo tradizionale. Quello che penso della natura umana proviene dalla mia esperienza con i miei pazienti e con me stessa, e le ricerche scientifiche sul cervello del bambino, che confermano interamente le mie ipotesi. In quanto esseri umani, siamo tutti nati prematuri, con un cervello non del tutto strutturato, e abbiamo bisogno di buone esperienze, della stimolazione, della gentilezza in chi ci sta attorno, per poter strutturare il nostro cervello in modo ottimale. Se, al posto di tutto questo, riceviamo botte, violenza, negligenza, è logico che la struttura del nostro cervello non possa completarsi come dovrebbe. Che un bambino trattato in questo modo all’inizio della sua vita vada, a sei anni, ad assassinare un neonato nel vicinato, è del tutto logico per me. Vede che non può fare dei paragoni tra me e Rousseau.
Lei ha scritto: “Il coraggio, l’onestà e l’attitudine ad amare gli altri non devono essere considerati come “virtù” né come categorie morali, ma come delle conseguenze di un destino più o meno clemente”. Cosa diventa allora la responsabilità umana?
Prenda dunque l’esempio che ho citato nella domanda precedente. Certamente, si può dire a questo bambino che si deve sentire responsabile e non uccidere un altro bambino. Ma le vostre prediche saranno vuote di senso e del tutto inefficaci nei confronti di un essere che non ha mai imparato l’empatia per gli altri, perché questa persona non ha empatia per se stessa. Ha imparato solo la crudeltà, ed è ciò che mette in pratica. Crede che si possa insegnare la responsabilità a persone che hanno avuto la stessa storia di questo bambino (e ce ne sono molte nelle case popolari francesi) e in cui i genitori hanno esercitato su di essi il potere e non la responsabilità?
Lei ha scritto: “La morale e il senso del dovere sono delle protesi alle quali bisogna ricorrere quando manca un elemento essenziale”, sapendo dei “sentimenti viventi” venuti da un’infanzia rispettata. Non è pericoloso sostituire dei sentimenti ai principi morali?
No, credo il contrario. E’ pericoloso sostituire i principi morali ai sentimenti di empatia. Là dove c’è solo crudeltà e manca l’empatia, non si potrà mai ottenere altro che l’obbedienza e la distruttività nascosta, con o senza principi morali. Ecco perché si picchiano ancora i bambini in certe scuole religiose, e si spera di poter ottenere dei bambini e degli adulti responsabili con le punizioni corporali. E’ del tutto assurdo, perché si produce proprio il contrario.
Si dice a volte “un bambino picchiato picchierà”. E’ corretto? E’ possibile per dei bambini che hanno subìto dei maltrattamenti, sottrarsi a questa fatalità? E come?
Si, lo si dice a volte, e mi si attribuisce questa opinione, ma questa non è proprio la mia opinione. Al contrario, conosco molte persone che sono state picchiate e che non vogliono vivere incoscientemente e ripetere automaticamente ciò che hanno passato. Ma è vero che la maggior parte delle persone riproducono senza riflettere ciò che hanno vissuto. Si sente spesso, soprattutto in Francia, la frase: senza botte, non mi ascolterà mai.

Lei si batte per la promulgazione di una legge che vieti di picchiare i bambini. Una legge simile non rischia di indebolire l’autorità dei genitori e quindi di disorientare ancora di più i bambini?

La vera autorità non ha bisogno delle botte o degli schiaffi per mostrarsi forte e per aiutare il bambino. E’ il contrario. Si danno botte e schiaffi se ci si sente deboli e impotenti. In questo caso, non si mostra al bambino l’autorità, ma il potere e l’ignoranza.
Lei è stata intervistata di recente dal settimanale La Vie e in un numero seguente una lettrice ha risposto al suo enunciato sui maltrattamenti che aveva ricevuto quando era bambina e che non ne portava le conseguenze. Che risponderebbe a sua volta?
Non ho niente da rispondere, perché è una reazione classica che conosco molto bene, che mostra la profondità della rimozione e della negazione. Ma non ho letto la lettera e non posso esprimermi di conseguenza. Forse la persona voleva dire che non soffre più per ciò che ha passato, grazie a delle buone relazioni che ha nella vita attuale. Così sì la posso capire.
Una delle critiche che si sentono più spesso formulare contro di lei, per esempio, ultimamente nel libro di Ron Rosenbaum, “Perché Hitler?” è che lei vada troppo lontano pretendendo di spiegare Hitler, Stalin, Ceausescu e Mao Tze Tung attraverso la loro infanzia sfortunata. Non c’è sproporzione tra le botte ricevute da Hitler bambino e l’olocausto? Tra la violenza dei genitori di Stalin e i gulag? Claude Lanzmann è arrivato a dire che era “osceno” spiegare Hitler attraverso la sua infanzia. Cosa risponde a queste critiche?
Dire che voler comprendere Hitler è osceno non è una critica, è solamente l’opinione di un uomo che ha deciso di non voler capire. Per me che ho vissuto la seconda guerra mondiale è stato di primaria importanza capire come tutto ciò che si pensava essere impossibile fosse invece diventato reale.
Quando avevo 10 anni, ho visto a Berlino degli uomini, delle SA [Sturmabteilung – battaglioni d’assalto, n.d.t.] in uniforme gridare nelle strade. Mi ricordo che già, in quella circostanza, mi sono posta la domanda: cos’ha potuto rendere questi uomini così crudeli, così violenti. Questa domanda mi ha accompagnato tutta la vita.
Le si obietta spesso che il maltrattamento è forse una delle ragioni della violenza umana, ma che riguarda solo una minoranza di bambini, e che ben altre cause, economiche, sociali e politiche, sono molto più importanti. Che ne pensa?
Lei pensa apparentemente che solo una minoranza di bambini siano colpiti dal maltrattamento. Se fosse questo il caso, non potrebbe essere un fattore importante nello sviluppo della violenza. Si tratta qui della definizione della nozione di maltrattamento. Quando i sondaggi rivelano che il 90% delle persone dicono che picchiano i loro bambini per delle ragioni educative, ciò non significa dire, per me, che il maltrattamento riguarda solo una minoranza. Se lei pensa alla “violenza educativa” che io chiamo maltrattamento, capisce come mai prendo tanto sul serio questo fattore.
Non teme di dar prova di “riduzionismo” spiegando tutti i mali del mondo o quasi con il maltrattamento? I cataclismi, la “legge della giungla” mostrano che la violenza fa parte dell’ordine della natura. La violenza umana non potrebbe dunque avere delle cause multiple e più originali del maltrattamento?
Se parlo di un fattore importante non vuol dire che io neghi l’esistenza di altri fattori. Ma ciò che osservo è che non sono ignorati gli altri fattori, ma solamente quel fattore che cerco di dimostrare. Mi pongo la domanda del perché. Quando cerco la risposta a questa domanda, mi chiedo perché si rigetti questa spiegazione laddove essa si mostri veramente utile.
Ha intitolato uno dei suoi libri “La fiducia tradita. Violenza e ipocrisie nell'educazione” (ed. francese “Abattre le mur du silence”). Di quale muro si tratta esattamente, e perché è stato costruito?
Il fatto che si eviti questo soggetto mostra che esiste sempre un muro di silenzio attorno al problema che riguarda i traumi del bambino.
Lei ha scritto in E’ per il tuo bene (p. 158, ed. francese): “Per imparare il rispetto (del bambino) non abbiamo bisogno di manuali di psicologia, ma di una revisione dell’ideologia dell’educazione. Cosa voleva dire?
Quando ho scritto E’ per il tuo bene, vent’anni fa, pensavo che fosse sufficiente esporre i metodi dell’educazione tradizionale, le menzogne, la manipolazione, la crudeltà, perché si aprissero gli occhi e tutto ciò cessasse. Era ancora molto ingenuo da parte mia. Oggi so che questi metodi sono registrati nei nostri corpi e che non è facile abbandonarli. Ma so che ci si può arrivare se lo si vuole.
Pensa che la violenza attuale nelle “banlieues” (periferie francesi, n.d.t.) possa spiegarsi col maltrattamento? Non è piuttosto la conseguenza di una certa situazione economica, di una certa urbanizzazione e di una mancanza di fermezza dei genitori e della società verso i bambini?
Non solo il maltrattamento, ma anche la negligenza di cui sono vittime i bambini piccoli, l’ignoranza dei loro veri bisogni, la mancanza di rispetto. Un bambino impara prestissimo che non merita rispetto e, evidentemente, non può rispettare gli altri a sua volta. Sceglierà il più debole per trattarlo nello stesso modo in cui è stato trattato lui.
Il modo in cui la violenza viene presentata in televisione gioca un ruolo altrettanto importante del maltrattamento nella violenza che si constata attualmente in molti giovani?
Certo. Ma penso sempre che un bambino amato e protetto non si interessi ai film crudeli alla televisione.
Lei ha scritto: “Un dogma vive dell’angoscia che hanno i suoi adepti di non far parte del gruppo.” La sua spiegazione della violenza attraverso il maltrattamento non rischia di diventare un dogma generatore di angoscia?
Io non spiego la violenza solo attraverso il maltrattamento, ma anche con l’abbandono che fa sì che un bambino non possa sviluppare l’empatia. Se lei tratta questa opinione come un dogma, sta a lei giudicarlo. Per il momento, non c’è pericolo che si trattino le mie opinioni come un dogma. Ci sono pochissime persone che sono d’accordo con quanto scrivo, e non hanno alcuna ragione di essere angosciati se mi si critica.
Non è dare prova di eccesso di ottimismo e anche di utopia scrivere: “Quando sarà tolta l’ignoranza risultante dalle rimozioni dell’infanzia e l’umanità sarà risvegliata, questa produzione del male potrà interrompersi.”? (L’infanzia rimossa, p. 175, ed. francese)
Non penso sia un’utopia dire che gli adulti che hanno avuto la fortuna di imparare il rispetto per il bambino cambieranno gli schemi culturali del futuro.
Non è la società che forma la personalità, sono le persone che formano la società, e l’infanzia di queste persone gioca un ruolo primario nel modo in cui queste si comportano da adulti.
Lei non ha parlato in nome delle persone che mi criticano, che mi accusano di rousseauismo o di oscenità perché vedo e posso capire che loro non vogliono comprendere. Rimproverano il mio “riduzionismo” perché non cercano di capire la complessità delle mie spiegazioni. Lo so che, molto spesso, lei ha fatto l’avvocato del diavolo per provocare la mia reazione. Mi permetta, per concludere, di porre questa semplice domanda: come possiamo capire la nostra vita se non vogliamo capire la storia dei nostri primi tre anni, la storia del tempo in cui il nostro cervello si è strutturato?
Benché io deplori la resistenza e le opposizioni contro i miei sforzi per approfondire la nostra conoscenza dell’infanzia, posso tuttavia capire molto bene i motivi che suscitano questa resistenza. Una volta usciti da questa situazione di sofferenza, hanno fatto di tutto per dimenticarla, e non vogliono ad alcun prezzo ricordarsi la loro impotenza. Quanto a me, ho scelto precisamente ciò che la maggior parte delle persone rifiuta: ho scelto di provare nuovamente questa impotenza, d’una bambina saggia e ben educata, al fine di poter comprendere ciò che è accaduto a me e agli altri. Se mi sono sbagliata, il futuro non mancherà di mostrarcelo.
Tradotto liberamente dal francese da Chiara Pagliarini

giovedì 13 gennaio 2011

La psicoanalisi dalla pulsione all'importanza della relazione: cenni sulla Teoria delle Relazioni Oggettuali

Le teorie a cui faccio riferimento nella mia attività clinica nascono all'interno della psicoanalisi  ma riguardano gli sviluppi più recenti in senso relazionale della psicoanalisi stessa come ad esempio i modelli teorici delle relazioni oggettuali.
Di seguito ho cercato di sintetizzare e descrivere brevemente alcune differenze di base tra la visione dell'uomo e della vita da parte della psicoanalisi classica e di tali teorie relazionali.
Ho tentato di snellire il discorso e semplificarlo utilizzando pochi termini tecnici.
Buona lettura.


La Teoria delle Relazioni Oggettuali ha rappresentato uno dei principali punti di apertura anti-dogmatica e di rinnovamento nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico, determinando, insieme alla Teoria dell’Attaccamento, il più importante spunto di revisione rispetto ai postulati freudiani (Jervis, 1996).
A partire dagli anni ’40 si è assistito ad uno spostamento dell' interesse verso le dimensioni relazionali della vita che portò a sostituire il modello pulsionale con una struttura concettuale fondamentalmente differente in cui le relazioni con gli altri costituiscono gli elementi strutturanti della vita mentale e le forze motivanti il comportamento umano.
Le relazioni oggettuali si riferiscono, nel senso più ampio del termine, alle interazioni degli individui con altre persone esterne e interne (reali e immaginarie), e alla relazione tra i loro mondi oggettuali esterni e interni.  

 Nel modello di Freud la pulsione è il concetto esplicativo di tutti i fenomeni psichici ed è concepita: a) come energia priva di direzione, orientata esclusivamente alla scarica; b) come il rappresentante psichico dei bisogni istintuali che esigono soddisfazione immediata; c) come principale forza motivante del comportamento umano.
La visione “asociale” dell’uomo, come organismo isolato che cerca gli altri per “scaricare” le sue energie pulsionali, privilegia un punto di vista intrapsichico più che intersoggettivo perché ritiene che la mente sia costituita essenzialmente da impulsi. Le relazioni con gli altri sono relegate in una posizione secondaria e l’altro è l’elemento più variabile della pulsione: “non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento” (Freud, 1915).

Dagli anni ’40 si è assistito ad una graduale ma crescente importanza data ad un modello di spiegazione centrato sul concetto di relazione oggettuale, la cui elaborazione è legata principalmente al dibattito nella Società Psicoanalitica Britannica e in particolare ai contributi della Klein, di Fairbairn e di Winnicott.
Le teorie delle relazioni oggettuali si incentrano sullo studio delle relazioni tra persone esterne reali e immagini interne e interiorizzate di relazioni e sul significato che tali immagini acquisiscono nel funzionamento psichico.

La formulazione più radicale della teoria delle relazioni oggettuali è senza dubbio quella di Ronald Fairbairn, che propone di abbandonare definitivamente il concetto di libido: la motivazione di base è la ricerca di relazione più che di piacere e il bambino è orientato fin dalla nascita ad entrare in relazione con gli altri. 
Il piacere diventa il mezzo per raggiungere e per mantenere tale relazione con gli altri. Per Fairbairn, le relazioni sono primarie e rappresentano elementi strutturanti della vita mentale e la principale motivazione del comportamento umano. 
L’autore considera la relazione con la madre reale l’elemento centrale dello sviluppo normale e patologico.

Con gli scritti di Donald Winnicott l’attenzione si sposta, in modo decisivo, alla relazione: nei primi anni di vita, il bambino esiste solo all’interno della relazione con una madre che si prenda cura di lui e pertanto, l’unità di studio della psicoanalisi, non può essere l’individuo singolo, ma diventa sempre più, la matrice relazionale costituita dall’individuo stesso in relazione con altri significativi.  

Nel modello strutturale delle relazioni oggettuali la concezione relazionale della mente sostituisce la concezione monadica elaborata da Freud, e viene spiegata dalla tendenza del soggetto, fin dalle prime fasi dello sviluppo, a costruire e interiorizzare le relazioni. Secondo questo approccio, lo sviluppo si realizza, non solo per processi maturativi ma soprattutto per processi interpersonali poiché il formarsi delle funzioni psichiche dipende dalla qualità dell’incontro intersoggettivo (Zavattini,1999).

Attualmente la teoria e la ricerca psicoanalitica si focalizzano sulle complesse interazioni tra le prime relazioni interpersonali e le modalità con cui queste portano alla formazione delle strutture intrapsichiche, i modelli operativi interni,  concepite in termini di interiorizzazioni di relazioni con gli altri (Zavattini, 2002). 
L’incontro con gli studi empirici promossi dalla teoria dell’attaccamento e dalla psicologia dello sviluppo, hanno contribuito ad una riformulazione, in termini dinamici ed evolutivi, del concetto di relazione oggettuale, descrivendone le caratteristiche sia affettive che cognitive e il loro contributo alla stabilità delle relazioni in quanto guida del comportamento nella ri-creazione dei modelli di relazione.





martedì 11 gennaio 2011

ADOLESCENZA

Spunti teorici
sulla fas
e di sviluppo adolescenziale

Il termine “adolescenza” si riferisce, solitamente, ai processi psicologici che accompagnano la pubertà nella transizione tra infanzia e stato adulto (Arcidiacono, 2000).

L’adolescenza è l’età del cambiamento, un periodo dello sviluppo in cui l’individuo è protagonista di vere e proprie metamorfosi cognitive, somatiche e affettive. Tali mutamenti, se da un lato aprono le porte di nuove e affascinanti possibilità, dall’altro evocano sentimenti di paura e di perdita e possono essere vissuti con grande conflittualità. Stabilire cosa sia l’adolescenza e quali siano le sue caratteristiche peculiari varia in funzione di diversi fattori, quali, l’epoca storica, lo

status economico, il sesso, l’appartenenza socio-culturale, e dipende molto dalla lettura che ne viene data dai differenti modelli di comprensione (Nicolò, Zavattini, 1992).

Possiamo considerare quattro grandi cornici concettuali (Marcelli e Bracconnier, 1999): 1) il modello fisiologico, che dà importanza alle modificazioni puberali somatiche e neuroendocrine e alla maturità genitale; 2) il modello sociologico e ambientale, che valorizza il ruolo dell’ambiente circostante nell’evoluzione dell’adolescente e in particolare il rapporto con i genitori e il passaggio al gruppo dei coetanei; 3) il modello cognitivo, che riguarda il passaggio dal pensiero concreto alle operazioni formali, che permettono di ragionare per ipotesi, di acquisire la capacità di generalizzare e nello stesso tempo di considerare la relatività di ogni posizione e di distinguere il pensiero dalla realtà (Piaget, Inhelder, 1955); 4) il modello psicoanalitico in cui, seguendo l’impostazione data da Freud (1901; 1905), viene sottolineato l’accesso alla sessualità adulta, la subordinazione delle zone erogene al primato della zona genitale, la ricerca di nuovi oggetti sessuali fuori dalla famiglia e la ristrutturazione del mondo intrapsichico.

La letteratura psicoanalitica indica come compito fondamentale dell’adolescenza l’integrazione all’interno del sé di tutti i cambiamenti intervenuti durante la pubertà e in particolare il focus è centrato sull’abbandono delle imago parentali dell’infanzia, sulla loro ristrutturazione attraverso nuove esperienze relazionali (Ortu, 1992), e sul rimodellamento delle identificazioni e del senso di identità.

Tradizionalmente individuano due principali modelli interpretativi dello sviluppo adolescenziale all’ interno della trattazione psicoanalitica (Nicolò e Zavattini, 1992):

Modello cumulativo o transazionale. . L’adolescenza viene considerata una fase evolutiva in rapporto di continuità rispetto al passato. Blos, (1962, 1979) rappresentante significativo di questo modello, considera l’adolescenza come una seconda fase di separazone-individuazione, per cui per raggiungere la maturità dell’Io e amare oggetti esterni ed extrafamiliari, l’adolescente deve distaccarsi dagli oggetti infantili internalizzati. L’autore sottolinea che nell’adolescenza si ripresentano le tematiche edipiche e ne viene completata la risoluzione. Il modello di Blos è stato criticato da Marcelli e Bracconnier (1983) perché pone eccessivamente l’accento sull’aspetto adattivo e poco sulla conflittualità tipica della fase adolescenziale.

Modello rivoluzionista. L’adolescenza viene interpretata come momento di crisi (turmoil), sottolineandone le peculiarità e le differenze rispetto all’infanzia e all’età adulta. Tale impostazione è sostenuta da un numero più nutrito di autori. Anna Freud (1996) parla di adolescenza come “disturbo evolutivo” che interrompe la crescita pacifica.

I Laufer (1984) introducono il concetto di break-down evolutivo legato al rifiuto inconscio della propria maturità sessuale e alla paura di assoggettarsi in modo passivo alle esigenze corporee. Il rapporto con un corpo che si trasforma e che sfugge in parte al controllo viene vissuto dall’adolescente con angoscia e conflittualità e con sentimenti di lutto e perdita per quello infantile.

Erik Erikson (1968) considera l’adolescenza come un periodo di crisi di identità a cui l’individuo reagisce in base al modo in cui nel periodo infantile ha integrato i differenti elementi dell’identità stessa. Pone attenzione, più che alle dinamiche pulsionali, al processo di individuazione e alle identificazioni che permettono lo strutturarsi della personalità.

Edith Kestenberg (1980) mette in evidenza il rigetto delle identificazioni precedenti e parla della crisi adolescenziale come sconvolgente ma necessaria e fruttuosa in quanto permette la riorganizzazione dell’identità. Al modello rivoluzionista vengono rivolte due critiche: la prima proviene dagli studi condotti in campo psichiatrico e psicologico (Rutter, 1976; Offer, Sabhin, 1990), che mettono in discussione l’idea della crisi come universale e imprescindibile per un sano sviluppo della personalità; la seconda si riferisce al rischio di sottovalutare la distinzione tra gli aspetti normali e patologici.

De Vito e Muscetta (1996) mettono in evidenza che all’interno della teoria psicoanalitica prevale, nella descrizione del processo adolescenziale, il tema della conflittualità evolutiva (crisi) in una prospettiva psicosessuale e si privilegia il ruolo dei meccanismi di difesa contro le pulsioni e del disinvestimento degli oggetti infantili interiorizzati, dando scarso rilievo agli aspetti interpersonali e all’ambiente esterno. Nicolò e Zavattini(1992) tuttavia rilevano che, in seguito alla crisi del modello strutturale delle pulsioni, ad una visione pulsionale del funzionamento psichico adolescenziale, si contrappone un modello interpretativo che sottolinea l’importanza delle relazioni oggettuali, delle identificazioni strutturanti e la tematica del Sé. Proprio gli studi sullo sviluppo del Sé e sulle trasformazioni delle relazioni oggettuali durante l’adolescenza tendono ad integrare dati e concetti provenienti dalla ricerca sulla prima infanzia e dalle ricerche ispirate dalla teoria dell’attaccamento con quelli di derivazione psicoanalitica (De Vito e Muscetta; 1996), e sottolineano la necessità di elaborare una teoria che riesca a collegare i processi intrapsichici e i fenomeni interpersonali caratteristici di questa età (Bowlby, 1979; Sameroff, Emde, 1989; Nicolò, 1990; Norsa, Zavattini, 1992).

La teoria delle relazioni oggettuali e la teoria dell’attaccamento sostengono che lo sviluppo è un processo che continua per tutto il ciclo di vita e che si realizza attraverso processi interpersonali, non limitati alla coppia madre-bambino, ma inscritti in una rete sociale che comprende tutti i membri della famiglia. Successivamente anche i risultati delle ricerche della developmental psychology hanno confermato che lo stato interno di un individuo è regolato dal rapporto con gli altri.

In questi approcci teorici si ritiene che durante l’adolescenza il particolare compito di differenziazione e delineazione della propria identità, in seguito alle trasformazioni biologiche e psichiche, implichi una ridefinizione sia interna (processi intrapsichici) che esterna (processi interattivi) dei vecchi legami. Per Winnicot (1965) il sentimento di identità nasce e si sviluppa nell’esperienza relazionale con una madre “sufficientemente buona”e può essere definito come il sentimento di essere vivo, il senso di integrazione (continuità) e il senso di personalizzazione (rapporto psiche-soma).
L’idea del Sé come risultato dell’esperienza e dell’attività sociale è sostenuta anche da Duranti (1994), secondo il quale l’identità va vista come una creazione continua, come “oggetto di costruzione e ricostruzione narrativa, in cui gli scambi con gli altri significativi e il contesto culturale e relazionale in cui avvengono giocano un ruolo determinante in una prospettiva di interdipendenza”.
L’integrazione nella personalità delle mutate caratteristiche fisiche, cognitive e affettive viene, quindi, legata al contesto sociale e storico-culturale in cui il soggetto è inserito e collegata alla processualità dello sviluppo nel il ciclo vitale. “Attraverso le nuove esperienze relazionali sia con la famiglia che con l’ambiente esterno, lo sviluppo adolescenziale attiva una forte spinta evolutiva che può accentuare o modificare tratti del carattere e strategie relazionali” (Ortu, De Coro et al., 1992). Sia la teoria dell’attaccamento che la teoria delle relazioni oggettuali tendono a sottolineare la stabilità più che la discontinuità dell’organizzazione della personalità nel corso dello sviluppo. Pur riconoscendo che i cambiamenti che si verificano in adolescenza permettono una revisione dei modelli operativi interni, tenendo conto dei risultati della ricerca, viene sottolineata la sostanziale continuità dell’organizzazione dell’attaccamento in questa fase della vita.

sabato 8 gennaio 2011

Servizi Psicologici


Qui di seguito sono elencati i servizi psicologici di cui mi occupo presso il mio studio:

Consulenza e/o sostegno psicologico

- individuale per adulti e adolescenti

- alla coppia e alla famiglia

- al gruppo (max 12 partecipanti)

Psicoterapia

- individuale per adulti e adolescenti

- di coppia

Supervisione

- Individuale

- In piccoli gruppi (psicologi,operatori sociali, insegnanti, educatori)

Sostegno alla genitorialità per genitori e nonni:

- individuale

- in coppia

Organizzazione di seminari e workshops formativi su tematiche di interesse psicologico e relazionale-affettivo con il coinvolgimento di professionisti specialisti in differenti discipline.

Perché rivolgersi alla Psicologa?

Sono tanti i motivi per cui una persona o una coppia possono sentire l'esigenza di rivolgersi alla psicologa per chieder aiuto.

Nella mia esperienza clinica queste sono alcune delle motivazioni o dei bisogni che spingono le persone a chiedere una consulenza e a intraprendere un percorso terapeutico:

· Promuovere maggiore benessere nella propria vita e prevenire il disagio psichico

· Migliorare l’autostima e/o la capacità di prendere decisioni

· Gestire lo stress e i cambiamenti (es. gravidanza, nascita di figli, menopausa, andropausa, trasferimenti)

· Difficoltà relazionali e/o affettive

· Disturbi dell’umore

· Ansia, attacchi di panico, sindromi da

· Disturbi psicosomatici (es. cefalee, dermatiti..)

· Gestire le difficoltà della sfera intima-sessuale e/o legate all’identità di genere

· Disturbi dell’alimentazione e del sonno

· Dipendenze (sostanze, da internet, affettive…)

· Disagio di un membro della famiglia

· Conflitti familiari e/o di coppia

· Separazione o divorzio

· Rivelazioni familiari traumatiche e/o eventi traumatici

· Superamento di un lutto

· Difficoltà sul lavoro

· Sostegno alla genitorialità

venerdì 7 gennaio 2011

Modello Psicodinamico

La psicoterapia è rivolta a individui adulti e adolescenti e a gruppi che vogliano intraprendere un percorso di conoscenza, di crescita e di cambiamento.

Il Modello Psicologico a orientamento Psicodinamico a cui faccio riferimento prevede come modalità principali il colloquio clinico, le valutazioni psico-diagnostiche e l’analisi della relazione d’aiuto tra terapeuta e paziente.

Gli strumenti che vengono usati sono principalmente ascolto attivo, accettazione, empatia, esplorazione di contenuti consci e inconsci, analisi dei sogni, interpretazione, il supporto dell’attiva partecipazione della persona al proprio processo terapeutico e di sviluppo.

E’ un metodo maieutico fondato sulla convinzione che anche in momenti di impasse più o meno grave, se sostenuto/a e aiutato/a adeguatamente, ognuno può sapere ciò di cui ha bisogno per superare una momento critico o di crescita individuando risorse personali e/o relazionali già esistenti o attivandone di nuove.
Modelli teorici di riferimento: le teorie delle Relazioni Oggettuali, la Teoria dell’Attaccamento, l’Infant Research.

Aree di intervento psicologico-clinico:

- difficoltà relazionali
- crisi legate a separazione o cambiamenti nel ciclo di vita
- elaborazione del lutto
- Self-empowerment e autostima
- disturbi dell’umore
- disturbi d’ansia
- disturbi psicosomatici
- disturbi sessuali e dell’ identità di genere
- disturbi dell’alimentazione e del sonno
- disturbi della personalità
- nuove dipendenze (shopping compulsivo, gioco d’azzardo, internet e social network)
- mobbing e stress sul lavoro.